Parco regionale di Montevecchia e della valle del Curone
Parco regionale di Montevecchia e della valle del Curone

Antiche Ricette Brianzole 2010: C'era una volta l'osteria


Chi ci segue da più anni, se non addirittura dal nostro primo incontro di sei anni fa, conosce lo scopo di questo nostro ritrovarsi. Abbiamo unito al nostro grande amore per la storia, soprattutto quella recente dei nostri vecchi, la voglia di raccontarla in un modo diverso attraverso la degustazione di antichi piatti che con la loro stupefacente varietà accompagnavano i vari momenti della vita quotidiana e le grandi occasioni.
In queste antiche ricette è contenuto, tutto il mondo e la vita dei nostri vecchi contadini. Ricorderemo la fatica nel procurarsi gli ingredienti, quasi sempre poveri, l’attenzione prestata alla preparazione delle vivande ed il piacere di ritrovarsi tutti insieme a tavola, in famiglia o con gli amici. E’ proprio di questo mangiare e bere in compagnia che quest’anno tratteremo.
Oggi le vecchie osterie non ci sono più. Picconi, pale e martelli, in terribili mattini, hanno sventrato, abbattuto, scardinato, in men che non si dica tutto un patrimonio culturale popolare che se ne è andato in briciole. Quello che ne è restato è stato irreversibilmente cambiato dalla modernizzazione.

Col nostro grande amore e con umiltà proviamo per un giorno a ricordare e a far rivivere il mondo delle Osterie di una volta.

Azzardiamo un titolo :



C’ERA UNA VOLTA .....




"L’osteria nella quale prendo i miei pasti è uno dei luoghi nei quali amo l’Italia.
Entrano cani festosi, che nessuno sa di chi sono, bambini nudi con in mano un fiasco impagliato.
Mangio, solo come un Papa, non parlo con nessuno, e mi diverto come a teatro."


                        Umberto Saba


Il dopomesdì de la festa” dopo una settimana di fatiche, la domenica pomeriggio, il contadino se ne andava all’osteria. Un luogo di riunione per gli uomini del paese che si ritrovavano per un calice e un “Tri set”.

La vecchia bottiglia della “gazosa” con la pallina di vetro che serviva da chiusura ermetica (veniva scherzosamente definita “lo champagne de la baleta”) era il simbolo dell’osteria assieme al calice e al mezzo litro con il piombino.

Le osterie più antiche sorgevano in prossimità di importanti nodi stradali d’altre epoche.
Le osterie offrivano ai viaggiatori, ai rari pellegrini, ai viandanti e anche ai banditi (che sempre amarono frequentare queste terre) vitto, alloggio e stallatico all’insegna della seppur interessata ospitalità brianzola.

L’insegna della frasca davanti all’Osteria è rimasta fino alla fine degli anni ’60, alle volte è scomparsa anche prima. Queste insegne avevano tutte nomi significativi ed in linea alla loro funzione, quella di offrire un po’ di riposo e di sereno svago anche se spesso non troppo contenuto, quando gli animi, aiutati da una certa quantità di vino, si alteravano.

Si chiamavano “Osteria del sollievo”, “Osteria del riposo”, “Osteria degli amici”, “Osteria il calice” e con altri bei nomi di questo genere; un ambiente bello perché sincero.

Si beveva vino e gassosa, si bevevano bianchini, grappini, grigioverdi, spuma; ed in estate si beveva bacco-soda, cinarini, bianchi spruzzati e vermutini.

Si mangiava pane e salame cotto o crudo, coppa, mortadella di fegato, cetriolini sott’aceto; a seconda delle osterie si poteva trovare anche lessi sempre pronti, trippe, stufati, coniglio in umido e naturalmente la sempre presente polenta.

Entriamo in punta di piedi :
…….l’osteria è chiusa, ma basta aprire una finestra perché ogni cosa torni a colorarsi……

L’elegante “trainera” di noce, tutta colonnine e con una graziosa testina di moro scolpita, sembra riempirsi di bottiglie di marsala, di doppio cedro, di vermut. Qualcuna di queste bottiglie, di quelle che vanno di meno, è stata aperta anche anni prima. C’e un bel lavandino di sasso.

I tavoli di legno massiccio ed il banchetto con le colonnine paiono animarsi e le monete paiono infilarsi nel buco situato in mezzo al banco e precipitare nel sottostante cassetto.

Improvvisamente il fuoco del grande camino, con le panche di fianco e le nicchie nel muro per posarvi il bicchiere, si riaccende e scoppietta, mentre in uno dei tavoli si riaccende anche una combattutissima partita a briscola chiamata.

Quattro o cinque giocatori picchiano sul tavolo segnandosi le carte e si tirano imprecazioni mentre l’oste riempie i bicchieri e l’atmosfera si fa sempre più pesante e le urla crescono.
La lavagnetta nera si riempie di numeri e di fregi segnando il destino della partita e dei giocatori perdenti che poi dovranno andare al banco in ginocchio.

Vino e gazzosa salame non mancano mai, dalla cucina arriva il profumo dei “pitanzit” che la “sciura” sta preparando.

Altri avventori si siedono attorno al fuoco del camino per raccontarsi l’ultima storia del paese.

Ecco gli immancabili gatti che fanno le fusa strofinandosi alle gambe dei tavoli aspettando sempre che caschi loro di straforo qualche “ranzai de carna” da inghiottire al volo.

Qualcuno comincia a lanciare l’idea di scendere in cantina a prendere un paio di vecchie bottiglie di “quel bon”. Le bottiglie vengono prese dalla vecchia cantina ricavata nella roccia e pulite dalla polvere grassa e appiccicosa.

Intanto un vecchio contadino con il vestito nero ed il cappello messo sulle “ventitre” estrae dalla tasca della giacca un pacchettino di carta oleata con alcuni pezzettini di formaggio grana, ne prende uno e lo infila lentamente in bocca masticandolo con attenzione: si sta facendo la bocca per assaggiare meglio il vino.

La padrona dell’osteria con gesti misurati e quasi solenni stappa la preziosa bottiglia ……ma con il piccolo botto del tappo l’incantesimo si dissolve…...





UNA PER TUTTE

Osteria del Carlambroeus di Montevecchia


Il fondatore Carlambrogio Brivio di Montevecchia, al quale Cesare Cantù dedicò un libro, era un venditore ambulante che mai mancava ai mercati di Lecco, Santa Maria Hoé, Oggiono e Merate. Batteva le fiere di Bergamo, Brescia, Soresina e Cremona; vendeva, comprava e barattava. Un robusto giumento era la sua “bottega” e la sua ricchezza. Lo si sentiva dire: “a chi di poco si contenta, tutto è caro e gradito”. Era un tipo di uomo che nel vario girare e nelle diverse soste di paese in paese, raccoglieva aneddoti e storie, le faceva sue e le raccontava con una certa bonomia e un certo garbo. Si era creato una certa saggezza e questa la metteva a disposizione di chi lo voleva sentire parlando molto sovente per proverbi. E di proverbi ne doveva sentire molti visto che di quei tempi i proverbi erano veramente “la sapienza dei popoli” e specialmente del popolo minuto.

Coi denari guadagnati il signor Carlambroeus potè aprire la sua osteria e passare con una certa agiatezza la sua vecchiaia senza abbandonare il paese natio poiché come egli diceva “ad ogni uccello il suo nido è bello”.

Carlambrogio oltre che mercante e oste era priore della Confraternita e anche Consigliere Comunale, partecipava attivamente alla vita pubblica di Montevecchia e per questo suo prezioso interessamento era ricambiato dal grande amore della sua gente.

Dal balcone della sua osteria puntava il cannocchiale sull’universo brianzolo, il maestoso spettacolo delle montagne da una parte, dall’altra la sottoposta pianura tutta popolata di case, villaggi, città, che via via si confonde ai confini con l’orizzonte.

Gli avventori non mancavano perché egli si accontentava d’onesto guadagno dicendo che “chi busca meno, busca più” diceva anche “un soldo meno ma pronti”. A lui non mancava mai una parola di consolazione od un consiglio di prudenza. Chiestogli come si potesse trovar tranquillità rispose: “col desiderare poco”.

Fino a non molto tempo fa l’Osteria il “Carlambroeus” conservava il fascino della sua semplicità antica con ancora intatto l’arredamento a panche e tavoloni di pesante e lucido noce. Il locale era rinomato per “quel” risotto con le quaglie e per il coniglio in umido cucinato secondo un’antica ricetta, il tutto annaffiato da quel “pincianell rosato”, misto di uve locali coltivate con tanta pazienza e fatica da esser bevute con religiosa attenzione.


Parlando di Osterie ovviamente non si può non parlare di vini e di gastronomia.

Parlare di vini brianzoli è un po’ come citare preziosi reperti archeologi ormai quasi perduti nei tempi. Le osterie della prima metà dell’800 ne avevano le cantine ben fornite e le botti di legno zampillavano come fontane di un vino “austero” dal caldo colore ambrato.
Poi sui cieli dell’enologia brianzola si abbatté l’uragano della fillossera (nel 1860); sparirono così dalle tavole dei brianzoli i ricchi e corposi vini locali.

Le antiche fonti nobilitano questi illustri fantasmi dell’enologia italiana. Già Strabone (I° sec a.C.) riferisce di aver visto i Galli Cisalpini “bere con eccezionale piacere da botti grandi come case”. E’ riportato da documenti di cronaca del VII secolo che i Longobardi vietarono alle popolazioni locali di coltivare la vite allo scopo di far bere la loro “cervogia”. Noi posteri possiamo immaginare la loro disperazione.

Ed ecco come la regina Teodolinda, che amava e capiva i brianzoli, ridiede loro la gioia di bere il loro vino. La leggenda racconta che Teodolinda, vedova del re Autari, aveva deciso di prendere come suo sposo il Duca di Torino Agilulfo. Agilulfo con il suo seguito, in cammino verso la reggia di Monza, trovò lungo la via la Regina Teodolinda che con la sua corte gli andava incontro.
Secondo l’antico uso Teodolinda gli offrì da bere in una preziosa tazza di zaffiro, dalla quale lei stessa bevve per prima. Agilulfo accettò la tazza, baciò la regina, invitato da lei stessa contrariamente all’uso, sulla bocca anziché sulla mano, e bevve. Una strana espressione di sorpresa si disegnò sul volto del re, non cervogia egli aveva bevuto bensì dell’ottimo vino brianzolo. Il vino piacque talmente ad Agilulfo che egli volle comparisse in abbondanza nel giorno delle sue nozze sulla tavola regia. Teodolinda aveva così salvato dalla distruzione i vigneti della Brianza.



Scrive Ottorina Perna Bozzi, nel suo libro “Vecchia Brianza In Cucina” (libro che ha ispirato l’inizio e la continuazione dei nostri studi ed incontri): “Prima dell’ultima fillossera che dal 1860 al 1870 distrusse tutti i vigneti il vino era una delle più grandi ricchezze della Brianza. Famose erano le sue enormi botti, e famosi i grandissimi torchi, di cui il più grande pare fosse quello dei Crivelli ad Inverigo. Ce ne era infatti una tale abbondanza che nelle annate più ricche si vendeva il vino “on tant al fiaa” ossia per quanto ce ne stava in una sola sorsata per quanto lunga essa fosse.
E i contadini si sfogavano a berlo appena spremuto nei tini, prima di consegnarlo alle cantine del padrone.


Richiamati dall’insegna della frasca davanti all’osteria oltre ai preziosi vini gli avventori scoprivano anche le virtù intatte della gastronomia nostrana.
Polli brianzoli, la bogia di Vimercate, i salami cacciatori, le luganeghe e i luganeghini, le filzete tagliate a “tallonitt”, i formaggini di Caslino, la “polenta e osei” che piaceva tanto a Stendhal, le lepri e gli uccelli che i cacciatori portavano alla “sciura” e che lei cucinava per loro.
Le nere ed affumicate cucine delle osterie della Brianza riservavano tutte queste e altre rustiche prelibatezze. Il motto “pacia del bel e del bon” imperava incontrastato.



Per gentile concessione del MEAB di Galbiate (Museo Etnografico Alta Brianza):


ZIA LINA racconta - Piccoli aneddoti che forse sui libri non si trovano
( Lina Ghezzi fin quasi agli anni ’80 gestiva un’ osteria a Santa Maria Hoè )


Nelle osterie si beveva tanto vino. Alla domenica gli uomini, da dopo pranzo all’ora di cena e oltre, bevevano, si ubriacavano e litigavano giocando a scopa, a briscola e alla mora (il gioco della mora fu vietato in pubblico). Alle volta chi perdeva e non aveva i soldi per pagare litigava e prendeva tutti a pugni e calci.

Il vino era sempre rosso mai bianco. Si ordinava a litri ( alle volte un litro per 4 o 3 uomini) e poi ancora, ancora….

Si cantava fino alle 3, 4 del mattino. Gli uomini usavano mettersi una mano dietro l’orecchio per ascoltarsi.

Alle donne e ai bambini era proibito entrare in osteria.

La zia Lina, l’unica donna presente in osteria, ricorda di aver una volta preso un pugno e un’altra volta un calcio quando gli animi si erano surriscaldati per il troppo vino.

I cacciatori alle prime luci dell’alba entravano in osteria (si apriva alle sei) e ordinavano grappa, anche mezzo litro per tre soli cacciatori; l’ultima goccia contenuta nel bicchiere veniva versata sulle mani e massaggiate.

Gli stessi cacciatori erano soliti portare la cacciagione all’osteria, qui veniva cucinata per loro dalla signora Lina e gustata in grandi pranzi dove non mancava mai il vino.

La trippa (unico piatto pronto nelle osterie) veniva cucinata nei giorni di mercato. C’erano sia mercati del bestiame sia mercati della frutta e della verdura.
A Santa Maria Hoè il giorno del mercato era il mercoledì, ancora oggi il giorno è lo stesso.

A Sant’Antonio (17 gennaio) si faceva festa, era tradizione preparare i ravioli dolci fritti che a differenza di quelli che ancora oggi si fanno a Viganò erano nell’impasto più semplici ma, a ricordo dei vecchi, gustosissimi.

Altra tradizione erano i pranzi di nozze in osteria.
I polli, i maiali, i manzi venivano allevati durante l’anno dalle famiglie degli sposi. Si portava tutto in osteria e un cuoco, appositamente preso per l’occasione, cucinava per gli sposi e gli invitati. Era una festa che durava due giorni.
Il giorno del matrimonio, a mezzogiorno si mangiavano antipasti con salumi vari, risotto, arrosti e pollo lesso. Poi, con le macchine pubbliche, si raggiungevano i vari Santuari Mariani della zona e si andava a visitare la casa degli sposi. Di sera, di nuovo, in osteria a gustare i ravioli in brodo.

Il giorno dopo i parenti, che avevano portato a casa tutti gli avanzi, si ritrovavano a casa degli sposi e si festeggiava di nuovo (il giorno dello “sposin”).




E ORA IL NOSTRO MENU’!


SALAME, SALAME "VANIGLIA", MORTADELLA DI FEGATO

CETRIOLINI SOTT’ACETO

FORMAGGINI DI CAPRA

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RISOTTO CON LE QUAGLIE

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TRIPPA BRIANZOLA

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RAVIOLI DOLCI FRITTI DI SANT’ANTONIO (17 gennaio)




LE RICETTE:
TRIPPA BRIANZOLA
(ricetta raccontata nell’osteria di Rovagnate, ora Cooperativa Sociale, da “Giuseppe del Rocul” cuoco di osteria).

Prima di tutto preparare il brodo:
fironi di maiale
ginocchio di vitello
coda o biancostato di manzo
verdure : sedano, carote, cipolle

Dosi per un chilogrammo di trippa:
rosolare due scalogni con burro o lardo, erba salvia, alloro, chiodi di garofano e un pezzetto di cannella;
aggiungere la trippa e far rosolare molto bene;
bagnare con due cucchiai di grappa far evaporare, aggiungere poi un bicchiere di vino bianco;
rosolare a parte con olio 200 gr. di sedano, 150 gr. di carote, 200 gr. di cipolle (tagliate a quarti);
aggiungere le verdure alla trippa aggiungendo un cucchiaio di salsa e del pepe;
aggiungere anche 150 gr, di fagioli bianchi secchi ammollati dalla sera prima;
Far cuocere aggiungendo, quanto basta, il brodo preparato;


RISOTTO CON LE QUAGLIE

Avvolgere le quaglie in una fetta di lardo o pancetta e metterle in una teglia con burro e poca salvia, tutto a freddo, e farle cuocere a fuoco allegro finché sono rosolate.
Poi bagnare con vino secco, salare, coprire, abbassare il fuoco e farle cuocere lentamente fino a completa cottura. Si servono con il risotto bianco e coperte con il loro sugo.


RAVIOLI DOLCI FRITTI
(ricetta di Zia Lina)

Per la pasta : 100 gr di farina, un uovo.
Per il ripieno : biscotti secchi schiacciati, marmellata (quella che c’era in casa).

Formare con la pasta dei ravioli quadrati, riempirli con il ripieno di biscotti e marmellata e friggerli in abbondante olio. Era usanza comprarne sei per volta.



Bibliografia :
“Vecchie Osteria della Brianza” Emilio Magni, Giorgio Manzi
“Rovagnate ricordi d’altri tempi” Comune di Rovagnate
“Vecchia Brianza in Cucina “ Ottorina Perna Bozzi


Un grazie a:
Alessandra Casiraghi per i test effettuati sulle ricette
Marco Galbusera per l’attenzione nella scelta dei vini
tutte le GEV che hanno collaborato alla riuscita della giornata


              Giovanna Dossi, Michele Villa